SCOPARE CON POESIA

Roberto Benigni è incantevolmente furbo. Ha recitato la più strepitosa poesia d’amore dell’umanità (la più gettonata nelle chiese ai matrimoni) come se fosse un archeologo atterrato in elicottero a Sanremo direttamente dal Mar Morto col manoscritto inedito del Cantico dei Cantici. Mille volte ritoccata dalla Chiesa, sbianchettata e cosparsa d’incenso, perché i fedeli non ne cogliessero il suo violento, inebriante afrore di sesso, la Canzone delle Canzoni è arrivata a Sanremo scortata dalla festosa banda municipale, capitanata dal folletto italiano più famoso e invidiato del mondo, soprattutto in Italia, popolo miserabile e invidiosissimo quando si parla del successo di un connazionale e della sua meritatissima fortuna economica. Ma Benigni è ricco dentro, un milionario di sorrisi, a differenza del pubblico che, mi sbaglierò, a me è sembrato smorto, come il mare. Mar Smorto. Ma l’Italia di oggi, purtroppo, è un po’ così: odio e noia.

Il divino erotismo del testo biblico, quasi pornografia sacra, è stato portato sul palco dell’Ariston con ironia, grazia e sapienza. L’ultrasessantenne Roberto ha un’energia vitale paragonabile a quella dei giovani, irruenti spasimanti della Bibbia. Ammaestrato e avvilito da Youporn e altri siti a luci rosse, il pubblico avrà capito la lezione magistrale di Roberto che il Nobel della sessualità è di chi scopa con poesia? Ieri sera, un fremito d’eternità ha turbato l’universo pecoreccio della canzone italiana. Benigni ha fatto scendere la Madonna dal cielo. Donando alla sua femminilità regale una spiritualità ancora più accecante, quella di una ragazza di carne, innamorata del suo ragazzo fino alla morte. E ieri sera, a Sanremo, la morte è morta, umiliata e vinta dall’erotismo della parola di Dio: “Le tue labbra sono porpora in cui sboccia l’indicibile fiore del sorriso. Il tuo odore vince ogni profumo. Se muovi gli occhi rinnovi la luce”. E la Madonna di carne risponde: “Ho grande voglia di rannicchiarmi nella tua ombra. E il sesso tuo su me, amore”. Grazie, Roberto, per questo brivido eterno in diretta da Sanremo di 2400 anni fa.

PICCOLE VIE CRUCIS DI TUTTI I GIORNI

Il fisco è come i funghi, se il terreno è buono gli accertamenti spuntano uno dopo l’altro. “Buono”, per l’Agenzia delle Entrate, è il contribuente che paga, mica l’evasore disonesto, no, il fisco predilige quelli onesti. Visto che già mi pagano perché non torturarli? Giorni fa mi ha trasmesso per posta l’ennesima scarica elettrica. Nel 2015 non avrei versato la Tari (tassa sulla spazza) al Comune di Roma. E perché mai avrei dovuto farlo? Ero residente in Umbria dal 2012. Ma la Raggi mi chiede 4500 euro e io entro in ansia. Il mio commercialista mi tranquillizza: vai al Comune, chiedi lo storico anagrafico delle tue residenze, me lo porti e gli dimostriamo che la Tari la pagavi a Terni perché non eri più residente a Roma dal 2011. Vado al Comune del paesello dove risiedo attualmente, mezz’ora prima dell’apertura, per sbrigarmi prima. Ma sono il diciassettesimo della fila. Già il numero, 17, dovrebbe mettermi in guardia. Infatti non ho con me la marca da bollo da 16 euro. Neanche il tabaccaio ce l’ha. Salgo in macchina e vado a comprarla al paese vicino. Ricomincio la fila. Finalmente il mio turno. Ma la funzionaria mi avverte che lo “storico” può rilasciarmelo solo per il paesello attuale, quindi dal 2016 a oggi. Sull’attestato, però, c’è scritto che nel 2016 sono “immigrato” da Terni. Quindi non ero a Roma! No, non basta. Lei, signore, deve andare in Umbria e farsi rilasciare l’anagrafico storico anche da loro. Mi permetto di rilevare che l’Italia è pazza. Con la tecnologia di oggi si dovrebbe fare tutto da casa al Pc. La funzionaria, piccata, mi risponde che viviamo in un paese bellissimo. Mi piacerebbe, forse, essere residente in America dove gli evasori fiscali li sbattono in galera? L’Italia è elastica, dice, noi chiudiamo un occhio. E gli onesti pagano il doppio, le rispondo: viva l’America! Me ne vado col mio certificato che non serve a un ciufolo. Parto per l’Umbria. Pago benzina, autostrada, tempo. E un’altra marca da bollo da 16 euro. Ora so quello che già sapevo ma posso sbatterlo in faccia a tutti gli esattori della Terra. Dal 2012 al 2016 ero residente in Umbria. Oggi partirò per Roma. Devo portare la documentazione al commercialista che la girerà al fisco pasticcione, ma che tartassa i suoi clienti migliori. La sfangherò? Speriamo, con questi non si sa mai. Ma se si sono sbagliati loro perché dobbiamo pagare noi? Voglio un fisco moderno che rimborsi il danno, anche quello, psicologico, di aver terrorizzato un contribuente cercando di scucirgli, come uno scippatore da strada, 4500 euro. Storielline di modesta perversione fiscale come questa inquinano le esistenze di migliaia di italiani. È lo Stato che ti complica la vita. La disaffezione alla politica passa anche da qui. Per sconfiggerla, lo Stato deve semplificarci il modo di contribuire alle sue spese, strade, ospedali, servizi, evitando di esasperare i contribuenti, costringendoli a tortuose via Crucis medievali, piccoli ma dolenti supplizi per pagare delle tasse, oltretutto, non dovute.

 

(Foto di Sarolta Ban)

LA BESTIA ACCERCHIATA COLPITA E AFFONDATA

Lo squalo che ha voluto trasformare un’elezione regionale in un plebiscito nazionale su se stesso, è finito vittima del proprio Ego onnipotente. Sognava imperiosamente di essere solo al comando e di divorarsi anche l’isola rossa, ma un branco di Noi lo ha circondato, colpito e affondato. È finita con 8 punti di distacco. L’Emilia-Romagna non si è fatta mordere dalla Bestia e ha rieletto il suo presidente Bonaccini a maggioranza assoluta (51,4%). Il pesce pilota dello squalo, la velleitaria Borgonzoni, si è spiaggiata (43,6%). Per una volta le furenti pinnate dello squalo (comprese quelle sui citofoni) gli sono tornate sul muso. Ha fatto bene Zingaretti a ringraziare le sardine. L’Italia era un oceano gelido. Grazie a loro, fra le onde è tornato a battere un cuore.

IL TEPPISTA DEL QUARTIERE ITALIA

Un individuo, un senatore della Repubblica, vi citofona sotto casa: è qui che abita uno spacciatore? Sia che lo siate sia che non lo siate è stata uccisa la democrazia. Una vicina vi ha segnalato e la domanda che l’individuo al citofono potrà farvi in futuro è: lei è il gay che abita qui? Oppure: mi si dice che lei è mussulmano, è un terrorista dell’Isis per caso? Ma anche: è vero che lei non paga le tasse? No? Allora è lei che palpa le donne sugli autobus? O: lei è un anarchico? Un comunista? Un “down”? Non potrebbe andarsene a vivere da un’altra parte?
Questo è accaduto e questo racconto. L’individuo, il pirla più pericoloso d’Italia, non è un teppista di quartiere, molto peggio, è l’ex ministro dell’Interno. Non ci si crede. Bisogna darsi dei pizzicotti per mandarla giù. L’autorità teppista al citofono di casa vostra. Davvero? Sì. In più è scortato dalla polizia. Se fossi il comandante di quegli agenti che hanno consentito a questo prepotente di citofonare impunemente a un libero cittadino, li sospenderei immediatamente dal servizio. Anche se l’inquilino del piano di sopra fosse il mostro di Dusserdolf. Ma la cosa più mostruosa di tutte è che se l’individuo dichiara, di fronte alle telecamere e ai microfoni spianati, che lui è nemico della droga e ha citofonato a uno spacciatore responsabile della morte di un ragazzo, milioni di italiani lo scambiano per un eroe, non per il pirla pericoloso che è. Il suo è un facile giochino mentale da venditore di aspirapolvere, perché tutti, tranne gli spacciatori, siamo contro la droga. Anche i tossicomani che non riescono a smettere. Come gli spieghi agli elettori che stanno votando uno degli energumeni della parte più buia della Storia che una sera potrebbero citofonare sotto casa loro? -Mi hanno riferito che lei professa idee avverse alla politica del partito. Apra la porta, prego, polizia di Stato.
Ci stai raccontando che gli italiani che votano quest’individuo sono dei tonti? Chi cazzo sei per dirlo? Nessuno. Ma lo dirò anche quando sarà proibito dirlo: milioni di tonti senza memoria. Quindi colpevoli.
Questa è la mia verità. Ma non mi azzarderei mai a tirarvi giù dal letto per spiattellarvela al citofono scortato dalla polizia di Stato. Adesso, come sulla Settimana Enigmistica, “trova le differenze”.

UNA MAGICA LETTERA D’AMORE

Quando mio padre festeggiò il suo primo compleanno, il suo papà, Diego, combatteva nella prima guerra mondiale. Così gli scrisse dal fronte una lettera di auguri. La mamma la nascose in un cassetto, ripromettendosi di fargliela leggere quando sarebbe stato più grandicello. Mio nonno morì al fronte, mia nonna visse nel suo ricordo (erano molto innamorati) ma si dimenticò di quella lettera e mio padre, orfano dall’età di due anni, non ne seppe mai nulla. Si trovava nel palazzo materno, oltre vent’anni dopo, quando gli americani bombardarono Cassino. Con altri sfollati si rifugiarono sulle montagne. Quella  notte, mio padre, ventottenne, tornò a valle per tentare di recuperare qualche valore prezioso dal palazzo. Ma il palazzo non esisteva più. Solo macerie. In piedi era rimasta soltanto una colonnina. E sopra quella colonnina, magicamente, c’era una busta indirizzata a lui, dal suo papà, morto nella guerra precedente. Immaginatevi la sua commozione nell’aprirla sotto i bagliori della luna e dei traccianti dell’antiaerea tedesca. Dopo averla letta mio padre lasciò, con la camicia e i pantaloni che aveva indosso, ridotto in miseria, quel palazzo fantasma. Ma aveva in tasca questa lettera d’amore, me l’ha data a me, al mio diciottesimo compleanno e io l’ho data ai miei figli. C’era scritto:

4.10.1917 dal fronte

“Carissimo figlio,

è la prima volta che ti scrivo e non puoi credere come lo scrivere “carissimo figlio” mi commuova. Cosa vuoi? Non ci sono abituato. Domani è la tua festa. E gli auguri che ti faccio in questa tua prima festa sono tanti e tanti che tu nemmeno li puoi immaginare. Io vorrei che tutto quanto di buono, di bello, di puro, di grande è dato avere in questo mondo tu lo abbia. Io ti auguro che questi stessi auguri che io ti faccio, tu li faccia al tuo primogenito e agli altri che verranno. Io ti auguro di avere una sposina come ho io, bella, buona, che ti dia quella completa felicità che essa dà a me. Tuo papà in questo momento è Maggiore ed è responsabile di un treno in servizio di guerra. Tu che sei un ometto serio e un futuro militare, mi intendi: il dovere in primo luogo. Sono certo che non ti allontanerai mai da questa massima e capirai che papà domani sarà con te col pensiero.”

Nella foto: Mia nonna Eugenia, vedova di Diego, con i suoi bambini. Mio padre Francesco a destra, con suo fratello Luigi.

CIAO O CARO?

C’è meno amore in giro, meno amore. Si respira aria fredda e scostante. La cura è di accogliere tutti nel cuore. Per primo chi ci sta sulle scatole. Anche perché, se ci irrita tanto, significa che nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti abbiamo riconosciuto ciò che più detestiamo di noi stessi. Lo so, mica facile sorridere a un mondo ostile. Lo stesso, dobbiamo strapparci il filo spinato dagli occhi, guardare fiduciosi in quelli degli altri, scoprire che più sono aggressivi più sono barricati dietro ai loro ego. Odiano perché hanno paura. Ieri pensavo che sono nato in un’epoca in cui si scrivevano le lettere e tutte le lettere, tranne quelle commerciali o a un superiore, cominciavano con un Caro o Cara. Quando i francobolli sono andati in soffitta, siamo passati dai tempi trepidanti dell’attesa del postino alla vittoria telematica dell’immediatezza. Ma le mie e-mail attaccavano sempre così: Cara o Caro. Mi sono accorto che il mondo aveva preso un’altra piega quando tutte le e-mail degli altri esordivano con Ciao. Ho resistito a mettere un Caro prima del nome, poi ho ceduto anch’io per non apparire bacucco o, peggio, troppo affettivo. Immaginatevi ora quanti miliardi di Caro o Cara ci siamo perduti nell’etere in questi anni fugaci. E quanti milioni di tonnellate di affetto corrispondenti sono andate smarrite. Perché, se non sei falso o ipocrita, non puoi scrivere Cara o Caro se prima  non hai spremuto una goccia d’affetto per quel nome al quale stai scrivendo. Per un Ciao, invece, non devi spendere proprio un bel niente. Sono gratis ma impersonali. Non restano attaccati al cuore. Sono più liquidi di un fiume. E passano. Non sono cazzate. Se lo sono, sono cazzate col potere di cambiarti l’umore. Caro Diego era una cosa, Ciao Diego un’altra. È la differenza che passa tra una cena a lume di candela e una partita a tennis. Il Ciao è sportivo, il Caro ti riconosce come amico o amica. Poi magari non sarà vero ma almeno ci ha provato. Ha bussato con intimità e rispetto al tuo cuore. Il Ciao sfonda la porta. Non sono nostalgico di nulla, accolgo il mondo così com’è, però l’osservo. E le piccole cose sono la mia scuola. La gratitudine, per esempio, la benzina dell’anima. Come mai i nostri serbatoi di gratitudine sono sempre a secco? Tra un grazie e un’alzata di spalle c’è la stessa differenza che passa fra una carezza e un calcio. Giorni fa un amico ha dimostrato gratitudine per me e mi ha fatto un enorme regalo. Ma è stata la sua riconoscenza, più del dono, a riaccordarmi con l’orchestra del mondo. Piccole grandi cose senza le quali si muore. Ciao a tutti, mie Care, miei Cari.

(Photo by Luisa Beltran)

HANNO RITOLTO LA SCORTA A CAPITANO ULTIMO LA MAFIA NON DIMENTICA. MA NEANCHE NOI

Il Capitano Ultimo e Diego Cugia-Jack Folla in una foto scattata dal regista Michele Soavi il 1 ottobre 2018 alla Mistica.

Per l’ennesima, spudorata volta, hanno tolto la scorta a Capitano Ultimo. Da oggi, il carabiniere dei poveri, l’uomo che ha catturato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, e che ha combattuto e vinto contro la politica e la finanza colluse con la mafia, è un bersaglio mobile in giro per Roma. Cosa Nostra, che non dimentica, l’ha condannato a morte. Ma anche io non dimentico e vi chiamo tutti a raccolta per ribellarvi a questa scelta infame. L’autorizzazione a togliere la scorta non è una questione giudiziaria, non cadete in questa trappola, è un linciaggio personale. Prima l’hanno umiliato, relegandolo in un ufficietto della Guardia forestale. Poi hanno cercato di lordarlo con la loro stessa merda, ma è uscito innocente da tutti i processi. Infine hanno scherzato col fuoco della mafia facendo il giochino della scorta: Ce l’ha…Gli manca…Ce l’ha…Gli manca…Ce l’ha…
No, da oggi Capitano Ultimo e la sua famiglia possono essere uccisi dal primo balordo che passa. La scorta gli manca. Ma il cerino è rimasto in mano a voi, signori. In primo luogo al generale Nistri, perché è come un padre che manda a ammazzare suo figlio. Poi all’ex ministro dell’Interno Salvini, che aveva promesso d’interessarsene, e si è visto. Poi al governo attuale, Pd in testa, che non alza un dito, vergognatevi. Ecco una ragione per non votarvi, oltre all’aver lasciato indenni i decreti sicurezza che umiliano i diritti fondamentali dell’Uomo.
E non venite a raccontarci che non è compito vostro, che per le scorte c’è un ufficio preposto. Quante volte avete fatto saltare il banco delle regole per le vostre raccomandazioni, i vostri giochi di potere, i vostri interessi? Fatelo, oggi, per una causa giusta. Oppure cedetegli la vostra scorta perché a voi non vi ammazza nessuno. Ma sia chiara una cosa. Se fosse fatto anche solo un graffio a mio fratello Ultimo e alla sua famiglia, vi considereremo i diretti responsabili. Nessuno, da oggi, potrà più dire “Io non sapevo”. Ieri ero al fianco di Ultimo alla commemorazione dell’arresto di Totò Riina, quando ho appreso la notizia della scorta. C’erano tanti carabinieri, abbiamo recitato il Padre Nostro stringendoci per mano con i migranti somali, con gli zingari che lavorano, con i poveri ai quali l’Associazione Volontari Capitano Ultimo offre assistenza, cibo, amore. Quando l’ho saputo stavo per avere un infarto dalla rabbia. Fuori la mafia dal Parlamento. Chi non sta col Capitano Ultimo è un suo complice. La mafia non dimentica. Ma neanche la Storia.

DIVENTARE RICCHI CON GLI EBOLA BOND: IL SUPERENALOTTO DELLE EPIDEMIE

Tutti sogniamo di diventare milionari. Se il colpaccio riesce, invidiamo il fortunato. Ma le vincite più generose, per esempio quelle al Superenalotto, provocano sciagure ai vincenti. O diventano più poveri del giorno in cui acquistarono il tagliando fatale, o muoiono tragicamente, per esempio si suicidano. È un dato statisticamente inoppugnabile, le rare eccezioni riguardano chi era già ricco prima. Tutti restiamo abbagliati dai miliardi, nessuno s’interroga sull’inquietante ombra che, come una mano nera, si posa sulla testa del “fortunato”. È molto più facile maneggiare l’infelicità che la ricchezza improvvisa. Soltanto un saggio ne sarebbe all’altezza, ma i saggi non giocano alle lotterie. E si guardano bene dall’imparentarsi, per una scommessa, con le epidemie degli altri.

Se avete dei risparmi da investire, infatti, e non vi accontentate dei Bot, oggi potete chiedere al vostro consulente finanziario di comprarvi i PEF (Pandemic Emergency Financing Facility). Non ci si crede ma sono degli “Ebola Bond”, obbligazioni sulle epidemie, e li ha inventati la Banca Mondiale. Il fine sarebbe giusto: fare arrivare immediatamente soldi freschi nei paesi colpiti dall’Ebola o da uno tsunami, prima che la lenta macchina burocratica degli aiuti umanitari si metta in moto. Ma sono gli investitori a sconcertarmi. Se punti il tuo gruzzolo sui PEF lo stai facendo sui cadaveri. Meno persone contraggono il morbo, o meno esseri umani finiscono sotto le macerie in un terremoto, più guadagni, perché dei tuoi soldi non c’è stato bisogno o perché gli aiuti dei paesi ricchi sono arrivati per tempo. Altrimenti perdi. Ma a leggerla spiritualmente “guadagni” perché hai beneficato l’umanità disagiata. Dubito, tuttavia, che chi perda il suo investimento non bestemmi e sputi per terra, invece di gioire perché avrebbe trionfato un capitalismo a rovescio, quello dell’amore.

Come nel caso di chi fa 6 al Superenalotto e sbanca i Monopoli di Stato, anche in quello di chi incassa dalla Banca Mondiale un rendimento coi fiocchi sugli Ebola Bond, tutti ignorano le conseguenze, il “disastro ambientale individuale” o l’ “epidemia spirituale” che si abbatterà sui vincenti. Non entro nel merito della legge non scritta che costoro hanno infranto, più o meno volontariamente, per non farmi affibbiare, da molti di voi, l’etichetta di “santocchione”, ma è una legge invisibile perfettamente operante e piuttosto rigorosa e mi auguro che, quando la coscienza universale farà un passo avanti, un giorno sarà studiata sui banchi di scuola come la matematica o la geometria.

L’ANGELO DELL’AIR FRANCE

Se il comandante dell’aereo partito dalla Costa d’Avorio per Parigi si fosse accorto del piccolo passeggero nascosto nel vano del carrello, lo avrebbe fatto salire lo stesso a bordo rischiando la carriera e la prigione? Che notizia sarebbe stata! Se il clandestino non avesse fatto rima con bambino, se fosse stato non un Piccolo Principe in fuga nelle stelle, ma un Uomo Nero, uno dei tanti disperati della Terra, ma muscoloso e forte, si sarebbero scomodate stamattina le grandi firme del giornalismo a infiorettarne la disgraziata sorte? Che notizia sarebbe stata! E come mai il cielo non ha acceso i suoi termosifoni divini per scaldarlo a 10.000 metri d’altezza? Perché l’alito di Dio e di tutti i Santi non ha pompato ossigeno nei suoi piccoli polmoni soffocati? Che notizia sarebbe stata! E perché il calore dell’umanità intera, quello sonnacchioso e tardivo di stamattina, non è balzato ieri tempestivamente fin lassù ad avvolgerlo in una coperta d’amore?

Qual è il miracolo, dov’è la notizia, che c’è di nuovo?

Eppure il piccolo clandestino senza nome è stato un eroe e la sua missione è compiuta. Il suo volo d’angelo è la firma con la croce su un bollettino medico invisibile. C’è scritto: Cancro dell’Indifferenza. Tutti noi in Occidente ne siamo colpiti. La notizia è questa.  Quel bambino è vivo. Noi siamo morti da anni senza saperlo.

UNA STALKER DALLA DOPPIA VITA

Ho una stalker che mi perseguita da vent’anni. Una signora con un nome arzigogolato, tipo Gersenda Meridione. Sedicente funzionaria di una nota emittente tv, diciamo, La7. Di me sa tutto come se mi avesse clonato il cellulare. Si fece firmare una copia del Mercante di Fiori nel 1997 a Grado, in Friuli. Piegandosi sul tavolo e mostrandomi la sua prosperosa femminilità, mi sussurrò: «Tu sai chi sono, vero, tesoro?». Aveva una faccia lunare, gli occhi slavati degli psicopatici, era corpulenta e severa come un busto di marmo di Vittorio Emanuele II.
Con un sorriso imbarazzato le accennai di no. Fortunatamente la fila dietro, ciascuno con la sua copia da autografare, rumoreggiava. Gersenda mi allungò uno sguardo di complice intimità, che neanche mia moglie la notte delle nozze. E scomparve.

Negli anni, su di me investì tempo e denaro. Me la ritrovai a ogni presentazione dei miei romanzi, da Cernusco sul Naviglio a Marina di Ragusa, in prima fila o confusa nella folla. Sempre coi suoi abitoni scollati. Suonò anche alla porta di casa a Roma e Dio abbia in gloria l’inventore degli spioncini. Mi riempiva la casella di posta elettronica con missive d’amore e d’insulti. «Siamo fatti l’uno per l’altra, sei uno stronzo, non si va contro i piani divini del destino!». Ebbi l’ingenuità di risponderle, provai a farla ragionare. Ma si trattava di una pazza intelligente e preparata, come Annie, la protagonista di “Misery non deve morire” che sequestra in casa uno scrittore ordinandogli di resuscitare la sua eroina preferita, morta stecchita nel romanzo precedente. E non mollò mai la presa.

Mia moglie cominciò a sospettare che “dietro” doveva per forza esserci “qualcosa”. I nostri bambini, quando uscivo per comprare le sigarette, scherzavano maliziosamente: «Vai a letto con Gersenda?». Un inferno. La bannai da ogni social. Le mandai la gentile ma ferma diffida di un legale, perché nel frattempo me l’ero ritrovata al supermercato, seduta nella poltroncina dietro al cinema (non dissi niente ai miei familiari per non spaventarli) o si catapultò nella mia macchina bloccata al semaforo rosso. Spalancò lo sportello: «Tesoro!» Ne avevo quasi terrore, cominciai a odiarla. Poi, improvvisamente com’era venuta, scomparve.

L’anno scorso è riapparso il suo nome, Gersenda Meridione, nell’elenco mattutino di e-mail. Questa volta ce l’aveva con Il Libro Nero. Non perché non le fosse piaciuto, anzi, ma come mai, invece che con Mondadori, l’avevo autopubblicato su Amazon? Avrei potuto farmi intervistare magari dalla Gruber su La7. «Ma senza editore…».

Lessi, come faccio con tutti, ogni mail successiva. Senza rispondere, come invece uso. Sembrava purificata dal dolore. Mi scriveva con gentilezza e rispetto, raccontandomi della sua famiglia falcidiata dalle malattie e dalla malasorte. Mi ha intenerito (nel frattempo sono cambiato anch’io) così ho deciso di risponderle perché non voglio escludere nessuno dal mio cuore. E da quando ho sessant’anni non ho più paura di niente.

Intendiamoci, Gersenda Meridione aveva sempre il suo caratterino pepato, se non era d’accordo su un mio post di Facebook si scalmanava, senza più vomitarmi tutto il suo livore, ma civilmente, e soprattutto senza tirar giù tutti i santi perché mi rifiutavo alle sue avances comandate da Dio in persona.
Finché l’altro ieri, la Meridione mi confessa che è stufa di lavare pavimenti all’ospedale, che non ce la fa più e sta pensando di emigrare come tanti laureati italiani rifugiati all’estero. Così le rispondo: «Perdonami Gersenda, magari ricordo male, ma non stavi a La 7?». E lei, testuale: «Pota Cugia sarà un’altra Gersenda Meridione….io a La 7???? A portar via lo sporco???».

Niente da fare, mi dico, è sempre la stessa Orlanda Furiosa. Tuttavia, nel dubbio, controllo la cinquantina di e-mail che mi ha scritto. In effetti, la prima Gersenda, la Doc, scriveva da un indirizzo Google, questa Gersenda qui da Tiscali. Ma non è una prova. Poi però m’imbatto in un suo allegato, una foto, non l’avevo neanche aperta per non ritrovarmi di fronte quella faccia un po’ così, da luna squinternata. E scopro il volto gentile di una trentacinquenne un po’ triste, con i suoi due bambini.
Incredibile ma vero. Un’omonima. Si è anche giustamente offesa perché per un anno ho risposto a lei come se fosse un’altra. Se avessi letto con maggiore attenzione sarebbe stato lampante. Ma come si fa, con quel nome identico da stalker? Eppure è accaduto. Cose che capitano solo su Internet.

 

TRUMP E IL SUO CUGINO DI CAMPAGNA

Non appena Trump fu eletto, pensai al ditone imbizzarrito del suo ego galoppante che avrebbe scalciato sul bottone di tutte le guerre, centrandone una, magari per sbaglio. Quelli come Trump sono uomini fatti per schiacciare. Al popolo piacciono sin dai tempi di Barabba. E mai azzeccare profezia fu più facile. Ieri, il cavallone biondo, molto sangue e poco puro, ha scalciato sui bottoni dell’Iran, uccidendo a freddo il generale Soleimani, con l’arma più vigliacca di tutte: il drone. Oggi, il poco purosangue twitta “vittoria” imbizzarrito, come sempre, dalla sua stessa boria. Il suo cugino di campagna, Salvini, scodinzola i suoi tweet da servo, qual è nell’anima, inneggiando alla vittoria dello zio d’America. Che qualche nobile coscienza si svegli, prego. Ecco in che zampe state mettendo la Terra. Qui nessuno difende l’Iran e nulla ci è più lontano degli ayatollah. Ma solo un imbecille poteva gettare un cerino nella polveriera del mondo.

SALTATE SUL CAPODANNO

Questo Capodanno lo passerò da Capitano Ultimo con gli ultimi, per questo mi sentirò come se fossi a casa mia, anzi più dentro casa ancora. Sarà come tornare bambino e saltare sul capodanno con un op-op ribelle. Perché c’è, nel primo giorno dell’anno che sempre mi rattrista, l’ebbrezza vana di tutti i “primi”, la spumeggiante indecenza della speranza di primeggiare 365 giorni filati, con petardi di soldi, botti di potere, stappo di onorificenze, portafogli carichi di salute, tessere Vip e amori a gogo.

Amiche e amici miei, io non vi auguro questo. Sarei un delinquente. Chi lo ha avuto, o solamente sfiorato come me, sa che il successo insegna poco, se non a sbagliare con successo maggiore, mentre, a chi sa accogliere il proprio capodanno rovesciato, a chi sa manipolare la sua pena fino a farla risplendere di gioia, a quell’ultimo, sì, vanno tributati tutti i sinceri brindisi e gli onori. Quindi vi auguro di accogliere gli inevitabili giorni della pena, che come sempre non mancheranno, ma di reggerne l’urto e gli scossoni, che vi faranno crescere di potere interiore, se non vi lascerete travolgere dallo sconforto e dall’autocommiserazione, quel petulante vittimismo che serpeggia sulle nostre labbra dopo ogni annoiato “Come stai?”. Malissimo, quindi benissimo, sarà la nostra risposta nel 2020, se davvero sarà un anno nuovo. Dipende dalla nostra calma e ferma volontà. Vero? C’è una storia Zen che molti conoscono ma non tutti, ed è per loro che la riporto, augurandovi istanti divini a sorpresa, bianchi o neri, tutto è bene, perché non c’è malasorte né fortuna sfacciata, ma solo amore, scoperta, gioia. Buon 2020! E saltate sul Capodanno! Op-op!

“Un vecchio contadino perse il suo cavallo.

I suoi amici lo confortarono. “Che sfortuna!”

Il vecchio disse: “Chi può dire se sia una fortuna o una sfortuna?”.

Alcuni mesi dopo il suo cavallo tornò portando con sé una mandria di cavalli selvatici.

I suoi amici si congratularono col vecchio. “Che fortuna!”

Ma lui rispose: “Chi può dire se sia una fortuna o una sfortuna?”.

Il contadino divenne ricco grazie a quella mandria di cavalli di pregio. Suo figlio amava cavalcarli, ma un giorno cadde dalla sella e si ruppe una gamba.

I suoi amici lo confortarono, mesti: “Che sfortuna, povero ragazzo!”

Il vecchio rispose inevitabilmente: “Chi può dire se sia una fortuna o una sfortuna?”.

Mesi dopo, Giappone e Cina, entrarono in guerra. Il governo ordinò di reclutare i ragazzi abili per far parte dell’esercito. Furono arruolati tutti, eccetto il figlio del contadino, perché era claudicante. Tutti morirono in guerra. Il figlio del contadino guarì e vendette i suoi cavalli procurandosi una rendita. E padre e figlio aiutarono i vicini con un po’ di denaro e un po’ di saggezza.”

BUON NATALE A TUTTI I GESÙ

Gesù siamo noi quando veniamo ingiustamente accusati e messi in croce. Durante la dittatura militare in Argentina, Gesù aveva 25 anni, e quella volta il suo nome era Hernán Abriata, uno studente d’architettura. Stavolta il suo Giuda è un centurione del dittatore, il generale Videla: fa il poliziotto, il suo nome è Mario Sandoval, soprannominato “Churrasco” perché mette alla griglia come bistecche i torturati. Al padre di Gesù che, tremante, apre la porta, il Giuda del 1976 sorride rassicurante: «Non temere per tuo figlio, è solo un controllo di routine». Per dimostrare che lui non è mica uno che si vende per trenta denari, slaccia l’orologio dal polso del Gesù di Buenos Aires e lo consegna ai familiari. Poi con uno strattone se lo porta via. Hernán, “desaparecido”, non farà più ritorno a casa e il suo alto grido lo conosciamo bene: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» La stessa crocifissione si ripeterà in Egitto, nel 2016. Allora Gesù si chiamava Giulio Regeni. Il suo corpo, martoriato, fu ritrovato in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria. Di giovani Messia traditi e messi in croce al mondo ce n’è uno al giorno. Anche per questo Gesù è immortale. Come Giuda. E tutti noi siamo stati l’uno o l’altro. Ma ieri c’è stato un colpo di teatro. Giuda “El Churrasco” è stato acciuffato a Parigi ed estradato a Buenos Aires. Il torturatore di Hernán era un falso Maestro. Addirittura insegnava Relazioni Internazionali all’Università. I Giuda di Regeni, invece, sono ancora nascosti sotto una coltre di affari. Ogni Gesù che rinasce con gioia questa notte, un’altra notte noi lo tradiremo. È lui che amiamo, il nostro eterno fratello abbandonato. E ancora non ci perdoniamo di esserci fatti sopraffare dal sonno e dall’indifferenza. Ha tentato di svegliarci, ma lo abbiamo lasciato a soffrire da solo, sotto le stelle di un cielo insanguinato, negli orti degli ulivi della terra. Buon Natale Hernán, buon Natale Giulio. Buon Natale, Gesù.

L’AMORE E IL DISPREZZO -Lettera aperta all’ex ministro dell’Interno-

No, senatore Salvini, lei non ha difeso i confini della patria, come twitta, squittisce e strilla in questi giorni sui nostri cellulari, nei comizi e alla tv. I confini della patria dall’invasione dello straniero li difesero i nostri nonni  dopo Caporetto sul Piave. Mezzo milione d’italiani morti ammazzati in guerra. A loro va il nostro rispetto e il nostro amore. No, non ci ha difeso, lei ha offeso nel corpo e nell’anima 131 migranti in fuga dalla guerra e dalla fame, impedendone lo sbarco e la pronta salvezza. Sequestrandoli per giorni in mezzo al mare. Ma di quale minaccia ai confini della patria si sarebbe erto a difensore? Erano armati solo di disperazione, lei è un vigliacco. Il suo è stato un abuso di potere. Quei 131 nostri fratelli e sorelle in Cristo che lei bacia nei comizi, disprezzandone la Parola nel cuore, per puro caso erano nati con un colore diverso della pelle in quei paesi impoveriti dalle nostre occupazioni militari e depredati dalle nostre piratesche scorribande finanziarie. No, lei non è il nostro dio. Non saremo mai fatti a sua immagine e somiglianza, senatore Salvini. Siamo italiani veri, ci hanno accolti in tutto il mondo, a volte con tolleranza e civiltà, a volte, purtroppo, con disprezzo. Fino a ieri eravamo fieri di non essere barbari, ma di aver dimostrato a tutti di essere un popolo gentile e solidale. Lei ci ha trascinati nel disonore. La nave Gregoretti è un’unità della Guardia Costiera italiana. 131 persone in pericolo di vita si erano aggrappate al nostro tricolore. Quel perimetro galleggiante era la nostra patria, i nostri confini sull’acqua. È stato lei a entrare in guerra contro noi stessi. Se ha un briciolo d’onore, questa volta si faccia processare. Come ci siamo schierati dalla parte dei naufraghi, così saremo dalla sua, qualora i suoi diritti non fossero rispettati. La verità, temo, è che lei riuscirà a svignarsela un’altra volta, attribuendone la colpa a una presunta “guerra giudiziaria” nei suoi confronti. Diserterà le aule dei nostri tribunali, fornendo un ulteriore cattivo esempio a chi è convinto che in Italia la legge non sia uguale per tutti.

CHE PERSONAGGI, QUESTI SCRITTORI!


Faulkner, premio Nobel per la Letteratura, era uno spendaccione folle: cavalli, tabacco e wisky. Karen Blixen, l’autrice de “La mia Africa”, dove visse respirando la sua aria incontaminata, fumò voluttuosamente fino ai 77 anni. Un istante prima di morire, a chi stava piangendo, sorrise rassicurante: «In realtà ho 3000 anni e ho cenato con Socrate». Conrad, l’autore di “Cuore di tenebra” era così irritabile che se, scrivendo, gli cadeva la penna, invece di raccoglierla da terra, tamburellava mezzora con le dita sulla scrivania per l’incazzatura. James Joyce era terrorizzato dai temporali. Se i tuoni lo coglievano a spasso, si torceva le mani e fuggiva per strada urlando. La cosa più triste che capitò a Tomasi di Lampedusa, rifiutato in vita da tutti gli editori, fu di vedere la pubblicazione del suo capolavoro “Il Gattopardo”, soltanto dalle stelle. Era già morto da 16 mesi. Henry James, da vecchio, soffriva di deliri di grandezza. Un giorno dettò una lettera per suo fratello, Giuseppe Bonaparte, esortandolo ad accettare il trono di Spagna. Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, era un padre severo. Uno dei suoi ragazzini si permise di fare un commento su una passante poco avvenente e lui lo pietrificò con un ceffone: «Ricordati che nessuna donna è brutta». Stevenson, l’autore dell’ “Isola del tesoro”, partecipò e vinse innumerevoli concorsi di bestemmie. Arthur Rimbaud, il piccolo principe della poesia, puzzava come un maiale e lasciava pidocchi nei letti. A chi speranzoso gli presentava i suoi versi, letto il primo, sputava direttamente sul libro aperto, e alle serate letterarie, dopo ogni verso declamato da altri, gridava “Merde!” inorridendo il salotto. Da bambino aveva implorato sua madre di affittargli un pianoforte ma lei si rifiutò. Rimbaud intaccò con un coltello un tavolo da cucina disegnando una tastiera. Si esercitò per mesi in silenzio. E imparò a suonare il piano per davvero. Oscar Wilde descrisse così la sua indaffaratissima giornata da scrittore: «Stamattina ho tolto una virgola. E questo pomeriggio l’ho messa di nuovo».
Che personaggi, questi scrittori! A loro e a tanti altri, lo spagnolo Javier Marías, autore a sua volta di capolavori come “Domani nella battaglia pensa a me”, ha dedicato “Vite scritte” (Einaudi) in cui mancano solo vizi e follie di Javier Marías stesso. Regalatelo per Natale agli aspiranti scrittori, in ogni famiglia italiana ce n’è almeno uno, così la smettono, scoprendo come si diventa