Liberazione è una parola viva e bellissima che, come tutti gli esseri, gli oggetti e i valori più preziosi della vita, è di natura delicata, fragile, e ha bisogno di un’attenzione costante, vigile, autocritica, altrimenti impallidisce, molto spesso di vergogna, e muore. Liberazione è una parola che impegna, liberazione è come un figlio: il tuo diritto di metterlo al mondo è legato al dovere di nutrirlo ed educarlo. La libertà è pertanto un impegno, individuale e collettivo. Non si può pretendere di essere liberati dall’esterno, da un amico, da un alleato, da un nuovo governo, dagli altri, se non si è manifestata di pari passo la propria resistenza a una coercizione evidente o subdola tesa a limitare il nostro diritto-dovere di libertà. Sotto questo profilo, nella seconda guerra mondiale, la resistenza europea non ha fatto da semplice sponda alle truppe alleate, ma ha svolto un compito essenziale dall’interno dei paesi occupati, un processo catartico di liberazione spontanea, anche se organizzata, dal nazifascismo.
Il nemico evidente di allora è assai più sofisticato e subdolo oggi, in particolare per le nostre generazioni che, dal dopoguerra, hanno vissuto un ininterrotto periodo di pace di oltre sessant’anni, pur se contrappuntato da fortissime tensioni internazionali e da centinaia di risvolti bellici che tuttavia non ci hanno riguardato da vicino. Le stragi, le oppressioni, la fame, le tirannie, erano “altrove”, e non intaccando i nostri beni, le nostre famiglie, le nostre case, non coinvolgendoci in prima persona, ci hanno indotto a una colpevole nonché ingenua distrazione che pagheremo, presto o tardi, con gli interessi. Se nel fascismo, come si dice, “i treni arrivavano in orario”, ma la libertà in ritardo, nelle pieghe della democrazia, altrettanto puntualmente, mentre arrivano i treni delle libertà si rigenerano i batteri delle dittature, e, come tutti i germi non snidati e tempestivamente curati, si fanno contro-resistenti, formano svariati focolai, si camuffano, sono cangianti, alle volte assumono addirittura l’aspetto e la forma della libertà, quella stessa contro la quale sono insorti, per debellarla. Oggi non c’è la prepotente e dissuasiva visione dei lager, sulle nostre autostrade non circolano i carri armati, nessuno sgancia bombe sulle nostre teste, e dai pennoni, seppur malconcio, sventola il tricolore e non la svastica. Ciò nonostante si avverte uno smarrimento, un gelido e cupo senso di oppressione, si vive alla giornata, in una preoccupazione sorda, insonne, per noi e i nostri figli, è come se fosse scomparso l’orizzonte e la capacità di proiettarsi nel futuro, sia pure a bordo di qualche tenue speranza. Ci sentiamo “occupati” ma non vediamo le forze di occupazione. Il nemico. Nonostante i politici, su un fronte o sull’altro, facciano a gara ad indicarcelo, manipolando le nostre menti con ineffabile irresponsabilità. Il nemico è il governo Prodi; la concentrazione di poteri nelle mani di Berlusconi; i nemici sono gli extracomunitari; chi non crede ai valori della famiglia; le coppie gay; il prezzo del petrolio; il narcotraffico e le mafie; il Sud zavorra del Nord; il Nord sfruttatore del Sud; i comunisti; le multinazionali; la manodopera cinese; il deprezzamento del dollaro; gli evasori fiscali; la microcriminalità; le banche e i tassi sui mutui; la burocrazia statale; i politici; la stampa; il fondamentalismo islamico; Bush. Ciascuna fazione utilizza uno o più di questi nemici, veri o presunti, lasciando intendere che, una volta sbarazzati da loro, noi ritorneremo in possesso della nostra piena libertà e di un orizzonte tinto di rosa. Da qualche tempo, tuttavia, si ha la netta sensazione che queste figure retoriche di “nemici della democrazia” non abbiano l’adesione che suscitavano fino a ieri, come se la gente, pur individuando in uno o in molte di queste forze “il nemico da battere” presagisse un inganno, un suono fasullo, un depistamento, una sorta di trappola. Insomma, come se un medico pretendesse di curare l’Aids con l’aspirina. C’è un immenso dolore non rappresentato, un dolore che non trova nella vita di ogni giorno, individualmente e socialmente, una valvola di sfogo. Un dolore di cui subiamo i contraccolpi ma che non riconosciamo in quanto tale, ne subiamo i sintomi ma addossiamo le colpe del malessere esclusivamente al di fuori di noi, in una proiezione cieca e infinita. Questo “nazifascismo interiore” è il cancro della democrazia di cui siamo inconsapevoli portatori, più o meno sani. Ed è qui che la bellissima parola Liberazione sta impallidendo di vergogna, perché non può sopravvivere nel lager di un egoismo sbarrato. C’è una parola, altrettanto bella, che, soltanto lo volessimo, potrebbe assumere il ruolo che ebbero gli alleati nella Liberazione. Conoscenza. Il diritto-dovere di “riconoscere” in noi stessi il nostro nemico e di resistergli, incalzandolo e debellandolo con una visione della vita e della Storia non così prepotentemente egocentrata. Il dovere di esistere per e con gli altri, non il presunto diritto di vivere a scapito degli altri e contro gli altri. L’esercizio di questa muscolatura interiore oggi è pressoché dimenticato. Dalla televisione e dal mondo degli affari, dalle contrapposizioni politiche e religiose, nella vita sociale e nel lavoro, echeggia sinistro il “mors tua vita mea”, la tirannia dell’edonismo, il trionfo della furbizia, della mistificazione, della deresponsabilizzazione, la mancanza di senso del dovere individuale e di senso dello Stato. Tutti intimamente sappiamo che questa non è retorica ma vita vissuta, anche se è più conveniente liquidarla come si trattasse di un moralismo dozzinale e fuori epoca. Forse occorrerebbe più umilmente riconoscere che l’affannosa, spasmodica ricerca del principio del piacere genera mostri, e quei mostri siamo noi. Trovo assai risibile che un sindaco abbia espressamente vietato che oggi, 25 Aprile, si canti “Bella ciao”, e che altri sindaci e politici abbiano espressamente dichiarato di disertare le piazze. Certamente la Liberazione non è patrocinio di una parte, ma di tutti, eppure sottraendosi per qualunque motivo alla sua celebrazione, o limitandola, ci si macchia di un torto civile, ci si sottrae a un rito di riconoscenza di un valore fondamentale al quale tutti ci stiamo sottraendo ogni giorno, disertandolo e disertandoci. Il 25 Aprile è una messa laica. Non ci emenderà di certo, ma terrà viva, almeno per qualche ora, la parola Liberazione, che è costata e tutt’oggi costa immensi sacrifici a chi è partigiano della libertà, e si assume il dovere di una visione della storia e del futuro dell’umanità assai meno imperdonabilmente vittimistica e narcisista della nostra.