DEVO A BERLUSCONI E A UNA VECCHIA SCALMANATA LA FORTUNA DI ESSERE DIVENTATO UN ROMANZIERE

Tutti i grandi successi sono preceduti da sonori fallimenti, disprezzo e fischi. Nel marzo del 1994, quasi trent’anni fa, scrivevo e presentavo un programma satirico alla radio italiana e mai pensavo di diventare un romanziere, tantomeno di scrivere una storia drammatica. Era da poco sceso in campo Silvio Berlusconi, il simpatico proprietario di ben tre televisioni commerciali, e a poche settimane dalle elezioni quasi tutti consideravano velleitaria e bizzarra la sua candidatura. La sinistra rideva. Dicevano che con i telegiornali non si cambia opinione politica alla gente. Era vero. I voti si mietono nei programmi d’intrattenimento e negli show.

Non si erano accorti che quasi tutti i personaggi popolari e i volti più familiari delle sue tv, presentatori, comici, cantanti, dichiaravano che avrebbero votato per il loro amato padrone. E che questo avrebbe suggestionato profondamente il pubblico.

Ero terrorizzato all’ipotesi che un magnate della televisione potesse diventare presidente del Consiglio e in Italia si materializzasse la profezia amara descritta nella Fattoria degli animali di Orwell. Così, nel mio piccolo, cominciai a fare satira sul Cavaliere. Diventò il mio bersaglio preferito. C’era un’agguerrita funzionaria della Rai, comunista, che dietro il vetro della regia mi faceva cenno di smettere, si tappava le orecchie, imprecava muta con facce da pesce. Ironizzare sui politici in campagna elettorale era proibito nella radio pubblica (ma non nelle televisioni private). Però il programma era in diretta e non poteva farci niente. Poche settimane dopo l’Italia si trasformò in una Fattoria degli Animali, lo è ancora oggi. Berlusconi fu nominato presidente del Consiglio e a me fu detto che non avrei mai più potuto scrivere un programma di satira per le reti Rai. E anche questo si è puntualmente avverato.

Uno dei rari dirigenti a cui non erano ancora spuntate come Zelig le orecchie aguzze di Berlusconi e non aveva precipitosamente aderito a Forza Italia, mi suggerì un ripiego: «Scrivi un radiodramma, tanto quelli non li ascoltano, te lo lasceranno fare».

Ma neanch’io li ascoltavo. Gli sceneggiati radiofonici, al tempo, erano recitati da attori di prosa che in scena, per chiedere alla moglie un caffè, impostavano la voce come baritoni mentre un pianoforte miagolava in sottofondo. Di solito si trattava di storie di coppie in crisi recitate in un tinello, con rumori di passi, porte cigolanti, pioggia finta. Pensai che alla radio non costa niente “girare” un kolossal e ambientare una storia in luoghi esotici, sonorizzarla con effetti speciali, lasciarla recitare ai più grandi doppiatori cinematografici, con scene veloci e una colonna sonora memorabile. Inventai il radiofilm.

Una mia amica, hostess, un giorno aveva fatto scalo a Bangkok, aveva accettato l’invito di un elegante manager a cena ed era scomparsa nel nulla. I suoi genitori la cercarono per anni sbattendo contro un muro di omertà. Così mi documentai sulla tratta delle bianche, su quei moderni harem dello schiavismo, spesso legati al narcotraffico, che poco o nulla hanno a che fare con gli sceicchi arabi delle telenovelas. Il Mercante di fiori sembrava una vicenda incredibile, ma anticipava la cronaca nera degli anni a venire. In queste stesse ore a Buenos Aires, per esempio, le nonne della Plaza de Mayo sfilano non più per i “desaparecidos” della dittatura militare, ma per le migliaia di nipoti scomparse nel racket della prostituzione di lusso e mai più ritornate a casa.

Le prime puntate suscitarono un’ondata di proteste. I centralini della Rai erano intasati. Gli ascoltatori si lamentavano che i dialoghi fossero recitati troppo concitatamente e non si capisse una parola, la musica e le sonorizzazioni erano assordanti e soprattutto si dichiaravano scandalizzati dai temi morbosi della storia. Quella era la mia prima regia e i dirigenti mi dissero «Si vede» consegnandomi pacchi di e-mail e lettere ingiuriose.

Il direttore di Radio 2 teneva una rubrica settimanale di dialogo in diretta con il pubblico. Una vecchia e fedele ascoltatrice lo rimproverò aspramente: «Non si vendono le donne all’asta! È un vero schifo. Chiuda subito quella roba!». Lui rispose che non poteva farlo ma non vedeva l’ora che il Mercante di fiori si concludesse. «Ormai manca poco, signora, tranquilla, restano solo sei o sette puntate». Era il mio direttore. Avevo fatto un fiasco assoluto.

La verità è che chi si sta godendo un programma in poltrona non ci pensa per niente ad alzare il telefono e dire «Che bello!». A meno che a qualcuno non venga l’idea di censurarlo. Così io devo a Berlusconi, a un direttore di destra nominato dalla sua compagine governativa e a una vecchia scalmanata il romanzo che mi ha dato il successo. Lo pubblicai dopo che il direttore fu costretto dal pubblico a ordinarmi un sequel di altre trenta puntate. Da allora, il Mercante è stato replicato svariate volte dalla Rai e questo libro ha avuto parecchie edizioni.

I produttori cinematografici, che lo ascoltavano in macchina al mattino andando in ufficio, (ogni puntata durava un quarto d’ora), cominciarono a telefonarmi per trarne un film o una serie televisiva. Credo che non esista al mondo un soggetto più opzionato di questo. Quando mia moglie e io eravamo in difficoltà economica c’era sempre un produttore che ci salvava versando un anticipo per i diritti sul libro. Il guaio, però, era che poco dopo si accorgevano di aver opzionato un gioiello troppo costoso da produrre, per l’Italia almeno. Così, passati sei mesi, tornavo in possesso dei diritti e questo tira e molla dura ininterrottamente da 24 anni.

Attualmente il diritto di trarre una serie tv dal Mercante ce l’ha Alessandro Usai, amministratore delegato della Colorado Film. È molto esperto e sono certo che riuscirà nell’impresa. Ho scritto di recente l’episodio pilota in coppia con Eleonora Fiorini, una sceneggiatrice abile e un’amica leale. È stato elettrizzante scoprire come da un romanzo di carta e da un radiofilm, in cui le emozioni sono cieche, questa storia potesse aprire gli occhi. E come la trama, scritta quando non esistevano, per esempio, gli smartphone (per la mia eroina possederne uno sarebbe stata la salvezza), evolvesse nel 2020, in cui il dominio assoluto del denaro sui valori fondamentali dell’uomo ha bruciato persino le più pessimistiche pagine di Orwell. Ma com’è stato per questa appassionante avventura letteraria, non è detto che il fallimento della Storia non sia altro che un preludio alla rinascita dell’umanità.

(Nella foto: un giovane autore di grandi speranze davanti all’ingresso di Radio Rai, in via Asiago)

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