18/08/2003

«L'incosciente», romanzo di Diego Cugia
Conflitti laceranti nel chiuso dell'anima
Giuseppe Amoroso

Il giorno del cinquantesimo compleanno di Luca Svevi sta lentamente stingendosi in una sera di solitudine: assicuratore appena dimessosi dal lavoro, separato dalla moglie Lia, si appresta alla cena quando riceve la visita di due colleghi, Aragno e Caruso, che, invitandolo a uscire di casa, gli annunciano di avere in serbo una bella sorpresa. Sommerso da conflitti interiori laceranti, chiuso nel suo animo tortuoso, il protagonista di L'incosciente (Mondadori, pp. 179, euro 15,00) di Diego Cugia sa bene che se si affida a un ricordo piacevole ben presto «un'orda di rimorsi sgradevoli» lo spazza via fino a che non arriva un sollievo rapido, fuggitivo. Si tratta di depressione: un deserto dove egli si sente smarrito, con il proprio «presepio interiore» invaso dallo straripante dolore del mondo. Corre l'auto con i tre amici verso Nettuno e il suo lungomare pieno di luci e poi verso una strada provinciale che porta al castello di Torre Astura, dove Corradino di Svevia, dopo la sconfitta di Tagliacozzo, fu consegnato a Carlo d'Angiò. Volti incorniciati dai finestrini di alcune vetture fanno presagire un «sentimento familiare e infausto». Intorno, una folla di invitati a un ricevimento sembra assorbita da un «padrone di casa pazzo». Dal castello giungono sul vento le note di una canzone. Svetta il maniero e sembra un «guanto di sfida emerso dal mare». Luca teme di far parte della solita rimpatriata in cui «occorre strabuzzare gli occhi per riconoscersi». Ma il suo «equivoco» è presto chiarito: la festa è organizzata per lui. Atmosfere incerte, personaggi che sbucano dal nulla, il viavai dei ricordi senza ragione, una ragazza dalla bandana azzurra che suona Ravel e un enigmatico «procuratore» ammirato «come un obelisco» costruiscono una sorta di recita grottesca, una farsa, con qualcosa di vero. E non v'è tregua. Un migliaio di uomini sono immobili «come una mandria di tori addormentati», altri scivolano simili a ombre e parole si levano diffidenti, astiose e si mischiano con quelle che Luca si porta con sé dal suo tormentato ieri: tornando, le parole, non riescono a creare un senso di calore, di distensione. Orgoglioso per essere il protagonista della serata ma vicino allo smarrimento, l'uomo vede emergere dal fondo delle acque tanti «ectoplasmi». In un crescendo che deforma la realtà, e che pare possedere una kafkiana tensione avvolgente, dal coro si staccano comparse chiamate dal procuratore a un crudele confronto con il festeggiato. È un assedio portato da un muro di corpi che non lascia filtrare una crepa. Non manca nessuno a un appello che ha qualcosa di un giudizio universale. Anche la moglie di Luca e la figlioletta Nanà, capace di «percepire gli ultrasuoni», entrano nella scena rutilante nella quale gli spazi narrativi si fanno stretti, elettrici, ridotti a frenetiche schegge, tra convulsi movimenti, gigantesche resse sotto una luna opaca, spettacolari apparizioni. Circola un'aria maligna, avvelenata, i dialoghi più naturali nascondono una trappola, accendono «lampade inquisitrici», si coagulano in massime segnate da un profondo senso di amarezza. Si avverte l'assenza della gioia, del respiro largo delle cose. In ogni gesto balena uno sfregio, s'odono frasi crude, le immagini si arrestano per lasciare intravedere la controluce della sventurata figura di Corradino dalla chioma d'oro e dal viso gentile. Finestre si illuminano di rosso pompeiano, l'ombra di Luca, proiettata sul terriccio di un piazzale, sembra «l'uomo vitruviano di Leonardo impresso sulla moneta da un euro», e una ronda di soldati rende più allarmante la situazione. Si rivelano antichi rancori, invidie tra colleghi, mentre, sempre più spinto in un'ansia innaturale, Luca cerca di mettere a punto una strategia. Gli altri moltiplicano le loro accuse, gli ricordano episodi che ha espulso dalla memoria ritenendoli marginali, gli rimproverano piccole dimenticanze «fatali», sono pronti a indirizzargli un «rimbrotto corale»... Di fronte al «tribunale degli altri», Luca è intenzionato a non lasciarsi sedurre dal «fascino ingannevole delle elucubrazioni raffinate» e, per prevenire nuove accuse, si autoinquisisce («...nella mia vita sono avvenuti dei tristi episodi nei quali la mia responsabilità è diretta e lampante»). Tornano a rivivere fatti che si sono consumati nel tempo: le loro pur brevi traiettorie aprono nuovi orizzonti in questo libro carico di buio, di piogge torrenziali, di stelle spente. Il viaggio nel castello è un viaggio nel labirinto della psiche, una discesa nell'immenso cuore dell'umanità, nella «buonafede» generale, in un mondo in cui sono tutti vittime, aggressori e aggrediti. Un mondo di innocenti che «pretende di essere risarcito». Ironia e sofferenza si alternano al cospetto continuo di una «platea». La favola si accosta alla spietata analisi psicologica e la visionarietà risulta il mezzo più idoneo per scardinare l'ipocrisia e la menzogna. E per far chiarezza in un'esistenza.